La morte – scritta il 16 gennaio 1995

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Un freddo profondo sento nelle ossa.

Non vedo più i colori del mondo;

il cuore vien meno,

il respiro mi manca.

Ridevo con gli altri alla vita

e pensavo di non morire mai.

Poi è bastato un attimo.

Tu mi hai detto: “E’ finita!”.

Ed ogni cosa ha perso il suo colore.

Il tempo si è fermato per me.

Sono morto.

E tu mi hai seppellito,

insieme al mio amore.

 

Il poeta maledetto

 

Un anno che sono morto…

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Non esiste limite al dolore che puoi provare
se chi te l’ha procurato è la persona
che più di tutte al mondo hai amato.
Nemmeno a distanza di un anno.
Quando pensi che tutto questo tempo
è passato in un soffio.
Quando pensi che è stato un anno buttato,
di cui non hai nulla da ricordare.
Se non per quei pensieri che
fanno battere i denti, tremare le gambe.
Per dolore, per rabbia, per rancore.
Non esiste più vita nei miei giorni,
strappatami dal petto con la sciatta semplicità
di uno sciacquone del cesso tirato.
Un vestito d’indifferenza
imbastito di mille menzogne.
Ancora.
E ancora,
e ancora.
Come se ci fosse un motivo,
un’abitudine di cui non puoi fare più a meno.
Il mio rammarico è non capir né quando
né perchè, la persona che amavo è sparita.
Ma tu chi sei?
Tu che ora semplicemente mi snobbi.
Difendendoti da semplici parole
con un milione di stupide, incomprensibili,
incredibili, banali e scontate bugie.
Hai imparato a sfruttare a tuo beneficio gli altri.
Confondendo i loro pensieri,
imponendo le tue false e costruite verità.
Quello che mi fa più male,
è la naturalezza con la quale
cerchi di ingannare anche te stessa,
dopo aver cercato di farlo con un grande amico
e, cosa ancor più stupida quanto grave, con me.
Io che tutto quel che hai fatto
ce l’ho scritto sulla pelle come pustole,
come piaghe di lebbra su di un cuore ormai in pezzi.
Un moncherino che ancor non smette di sanguinare
per te e per quel che gli hai fatto.
Un anno è passato.
E forse altri ne passeranno.
Ma continuerò a viverli del poi.
Dell’averli passati e non sapere come.
Di un’orrenda giostra in cui vorrei
soltanto cancellarti,
vorrei soltanto un pò di pace.
Non ho la forza di Prometeo,
né la rassegnazione di Epimeteo.
Il vaso dei mali
ha già disperso la sua essenza,
ma liquefatta è stata anche la speranza.
Morta sulle tue labbra,
nel momento in cui hai proferito
le tue ultime bugie.
Io impazzisco e muoio.
Oppure sono già pazzo.
Sono già morto.

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Menzogne – 8 ottobre 2008

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Mi rendo conto di esser diventato il tuo nemico.

Solo veleno han le tue parole, al telefono.

A me non deve interessare la tua vita,

tu non vuoi parlare con me.

Ne farei a meno, credimi,

se non fosse che per l’ennesima volta mi stai mentendo,

facendo un illecito, tentando di truffarmi.

E non riesco a capire se l’idea sia tua,

o di qualcun altro che ti da consigli,

su come fare le cose aumm aumm, in puro spirito napoletano.

Io odio Napoli, non per la città.

Per tutte quelle persone che “arrangiandosi” nell’illecito,

distruggono quel poco di buono che potrebbe riscattarle.

Quei pochi che fanno eccezione (dei veri santi!) non riescono

a sopperire le carenze della massa.

E tu sei persa in quella massa.

Hai fatto scudo delle tue mancanze,

della tua falsità,

del tuo esser stata puttana,

con false accuse e colpe,

distribuite un po’ qua e un po’ la,

su tutta la mia esistenza.

Io sono il vero nemico:

uno che ti amava davvero,

ma che ora ha scoperto come sei cambiata,

cosa sei diventata.

Non ho pietà per te,

falsa vittima di te stessa.

Ti stai infilando in un vicolo cieco,

ignorando dove sia la retromarcia.

E lo stai facendo a tutta velocità.

Circondandoti di menzogna,

in un futuro non troppo lontano ti cadrà tutto addosso.

E sarà dura uscir fuori dalle macerie che tu stessa hai creato.

Puoi ingannare uno tutte le volte,

tutti una volta, ma non tutti, tutte le volte.

Scrivo questo consiglio che non leggerai,

un pensiero che non capiresti.

Di chi ti ha amata come or più non mi è possibile,

e continua a non provare odio per te.

Solo rancore, dolore, profonda delusione,

per quello che sei stata in grado di farmi.

E continui ad indicarmi,

puntando la tua lama fredda, acuminata,

in direzione del mio cuore.

Ma ormai esso è libero da te.

Posso provar soltanto compassione

per quello che ti stai facendo,

aiutata a raggiunger la tua fine da non so chi.

Vorrei ancora poter sperare,

di vedere un barlume nei tuoi occhi,

un’inflessione nella tua voce.

Ma ferma e decisa,

mantieni la tua posizione,

assisa su di un trono di menzogne,

che si erge sulla forza di quattro grissini.

Non so più come fare,

per darti la possibilità,

di voler capire che forse,

potresti chiedere perdono.

Se solo capissi i tuoi sbagli,

forse ti renderesti conto delle tue colpe,

forse potresti rimediare.

Forse.

Ma non sono in grado di perdonare,

chi come te, il perdono non lo vuole.

Questo è il pensiero che mi tormenta:

hai convinto te stessa,

che i tuoi sbagli, le tue colpe,

erano inevitabili, giustificabili,

e per questo normali.

Una cosa che non ha bisogno di giustificazioni,

una cosa di cui non preoccuparsi,

una cosa per cui non chiedere perdono.

Delle mille pugnalate che mi hai inferto,

sanguino ancora, e ancora provo dolore.

E ancor più grave, ora, veder negli occhi di mio figlio,

la mancanza di un padre,

e quella di una madre.

“Io non devo pensare a me stessa?”

altra infelice tua frase, pronunciata a telefono oggi,

7 ottobre 2008, e che vado ad aggiungere alle altre,

che senza pensarci troppo mi hai detto.

Certo! Pensa a te stessa! E’ quasi un anno che lo fai.

Ormai è diventata la tua regola di vita.

Che t’importa se al bimbo a cui tolto il padre,

“per poterti sentir donna” in un’auto di notte,

di fronte a una strada, nel parcheggio di una fabbrica chiusa,

o in un albergo ad ore,

ora togli anche la madre?

Ricordo ancora il giorno in cui siete partiti per andare via da me.

Ricordo ancora la frase che ti ho detto come addio:

“Adesso hai la possibilità di fare la madre che non hai fatto finora”.

Speravo che la vicinanza con quel figlio che avevi trascurato,

che quell’amore incondizionato che egli ti regala,

avrebbe potuto cambiarti, redimerti, darti la forza di capire cos’eri diventata

ed andare contro te stessa, per poter ritornare com’eri.

Così non è stato.

Nemmeno l’amore di tuo figlio, è riuscito ad aprirti gli occhi.

Con un sorriso sarcastico, il 22 settembre mi hai detto:

“e mi hai mandato a chiamare anche dal prete!”

vergognati di questo. Non dirlo in giro, che ho chiesto anche ad un rappresentante di Dio,

lo stesso che ci ha sposati, di farti ragionare, di farti chiedere un perdono

che era in attesa di essere chiesto.

Sei ormai polvere che il vento soffia via.

Una donna senza nessuna consistenza.

Un’esistenza traviata, sconfitta da se stessa,

che non ha ancora capito di essersi condannata da sola.

Eppure io ero qui.

Tradito, illuso, deluso, offeso, attossicato, solo,

nell’attesa.

Nell’attesa di un segno di recupero di te stessa.

Quattro volte ho tentato,

quattro volte ho fallito, o meglio,

ti sei lasciata fallire.

Non posso fare più nulla per te.

Ma posso fare qualcosa per mio figlio.

Non ho cuore di dormire stasera,

dopo averlo visto chiamarmi implorante, al videofonino,

come se stesse dicendo: vieni qui! Mi mancate!

La tua risposta alla mia domanda a lui rivolta:

“Sei stato lasciato solo?”

E’ stata:

“Lui non è mai solo! E’ con i nonni!”

Ma cosa ne sai, nemica mia,

della solitudine del cuore?

Troppo presa da stupide minacce, aggressività

ingiustificata, e calunnie, non ti rendi ancora conto,

del deserto che ti sei creata in cuore.

Col tempo imparerai,

col tempo capirai,

ma quando lo farai, sarà troppo tardi,

per renderti conto che quel vicolo è troppo stretto,

e non puoi uscire di lato,

che non esiste uscita,

che sull’auto della tua assurda follia,

non esiste retromarcia.

Che Iddio abbia pietà di te,

sempre se a lui chiederai perdono,

o dirai che ti trascurava,

per giustificare i momenti in cui

andrai a fare l’amore col Diavolo,

in auto in un parcheggio,

o nella squallida camera di un albergo ad ore.

Spara!

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La mia vita volli dedicarti,

Puntando su vincente cavallo

che mille ostacoli aveva superato,

e mille ancora ne avrebbe saltati.

Trofeo da primo posto,

purosangue indomito,

stirpe guerriera ed errante.

Povero cavallo!

In buca azzoppato rimase.

E sforzo non vi fu che potesse guarirlo.

Provai e riprovai, ma oramai,

testardo e sordo, a quella voce amica,

che mille e più volte lo spronò a tentare,

recuperare il perso trotto.

Volesti perderti nel tuo torto.

Da quella buca non volesti uscire.

Tendendo orecchio ad invidiosi altri cavalli,

al loro dire, basta, ormai non corri più,

la gara è persa.

E perso ho io, che non riuscii a convincerti,

che pur se in fallo un modo c’era.

E t’indicai il sentiero.

Ma il capo volto ad altro,

a guardar chi corre e a riposar,

di corsa che mai più riprenderai.

Ed ora siamo qui,

E colpa è mia che non seppi guidare il trotto,

così la buca che cercasti e trovasti,

fu come se l’avessi messa io,

io il piede in fallo.

Amica mia nemica, tu ora credi

a tutti meno a chi ti fu fedele.

Sempre a parlar di ciò che bene e solo bene poteva fare.

Mai d’un pensiero origine vi fu,

in ciò che in fallo t’avrebbe stretto a perdere galoppo.

Sbagliasti, risbagliasti, riprendesti e inciampasti,

fui ancora li, ancora a incoraggiare e spronare.

E tu testarda e sorda, continuasti,

a cedere il tuo passo

e infin girasti.

Opposta direzione ancor più male a fare.

Ed ora spara!

Un colpo in testa, uno soltanto.

Dritto, fermo, deciso.

Nel cuore tuo già presa è decisione.

Fui solo io a sperare, che fosse stata solo buca.

E invece era una tomba.

Spara! Togliamoci il pensiero!

Ti scriverò parola “fine” ad epitaffio.

Se d’un amor e folle corsa resto vittima,

colpa non è tua, ma mia.

Io sognatore illuso, m’arrendo.

A te, alla vita, all’altro che m’usasti come arma contro.

Spara!

Spara all’amore, e spara anche a me.

A me che stupido credetti.

A te, all’amore, ai baci tuoi, a quel figlio,

che mi lasciasti fra le braccia,

per correre da lui… la tua buca.

Spara, e poi corri.

Perché non debba subire torto di guardarti,

nell’ultimo momento mio e del mio sciocco amore.

Vai donna, vai via da me.

Ti ho dedicato una vita,

seppellisci anche quella.

Cercherò di dimenticare,

di fare come te che hai scordato.

A qualcun altro darò le tue colpe,

come maestra mia, tu,

le tue mi regalasti.

Mira bene! Non sbagliare!

Poi dì a chi chiederà,

che io fui a chiedere e tu facesti.

E diglielo con odio,

così ti crederà.

Diglielo come dicesti a me:

“Io lo facevo perché ti odiavo”

“Mentre lo facevo io ti odiavo”

Spara! E non aver timore!

Io son già morto nel tuo cuore.

Il cuore mio, invece,

l’ho seppellito già,

con quella che eri

e che più non sarai.

Il poeta maledetto