Saper volar vorrei,
veloce andar da lei.
Ma sento ancor l’affanno
e i piedi stanchi.
Ché curvo son dell’amarezza,
perduto simigliare dei suoi fianchi.
Vallata fu per me la sua bellezza
che cavalcar cavallo indomito potevo.
Non una goccia
sulla brulla terra ebbe contatto,
giacché di fiori in moltitudine coperta.
Raggio di sole,
progenie luminosa d’alba,
lenire volle,
progenie luccicosa d’ambra.
Semente triste assai
quella rugiada era,
che lentamente le velò lo sguardo.
Cresceva pianta occulta molto in fondo,
che il cuore mio volle chiamarla,
e la chiamò dolore.
Afflitto e vinto
dalla fuga che mi liberava,
gridai “Ritornerò”, rompendo il pianto.
E il trotto smisurato diventò galoppo.
Tempesta così intensa,
mai s’ebbe a parlare
che fragoroso tuono
l’ebbe ad invidiare.
Tempesta che il sol non vede
nasce in cuore.
Urla, burrasca, infuria ma non muore.
E quiete chiedo, ritrovarla spero,
nel volto di colei
che carezzò la mia criniera.
Indomito sapor di barbaro ha il mio manto,
ma nel cercarla il passo si fa lento.
Più duro il dirle addio lui volle, e fu.
Ora l’invoco, Amore,
che tramutare in Pegaso,
il passo in volo di lento cavallo può.
Il poeta maledetto