E il destino bussò alla mia porta – scritta il 28 agosto 2008

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Fu un attimo.

Limpido cielo rimirare,

caldo sole da godere,

fresca aria respirare.

Poi scura tenebra e tremare.

D’un freddo che nel cuore

prese ad albergare.

Tempesta, burrasca,

panni stesi d’improvviso a bagnare.

E indaffarate massaie correre a riparare.

Finestre battenti a chiudere,

e balconi e verande a ritirare.

Ma raggio di sole,

in su le nuvole tornò a bussare.

Così squarciata oscurità

di passo a luce ritornò a lasciare.

E fu calore e gioia

e vita da godere.

D’un caldo che un sorriso

fece ritornare.

Così bagnata via riprese a camminare,

città deserta in riparo,

tornò ad uscire, a vivere, a sognare.

Un attimo fu.

Vita qual brezza,

leggera, calda da godere,

frizzante monotonia da assaporare.

Poi scura tenebra e tremare.

D’un freddo che nel cuore

prese ad albergare.

Tempesta, burrasca,

occhi al vento d’improvviso a bagnare.

Non un sorriso ci fu a riparare,

Una carezza, una parola.

Balconi e finestre chiuse,

la vita mia nascostasi a tremare.

Di tenebra maligna, e solitudine,

rancore e odio e miseria d’animo,

senza accorgersene si prese ad ammalare.

Ma raggio di sole,

alla mia porta venne a bussare.

E avea occhi di cielo,

e spalle di colline morbide

di frutti cariche, da assaporare.

E pelle profumata di fiori di campo in distese,

su cui correre e volare.

E labbra di fuoco in fiume e rapide

da lasciarsi catturare,

e trasportare e fino al mare arrivare,

e li perdersi e naufragare.

Così parlò lei,

e melodia fu

d’usignoli al mattino

e cinciallegre a mediana.

Ma quel che disse

ripeter non saprei.

Giacche già m’ero perso

tra cielo suo e suo mare.

Poi si voltò e petali di rose

vidi ancheggiare.

E bruna pelle

accarezzata dal sole,

su fiumi d’ortensie e malva

vidi scivolare.

Piano, lento,

perché non fosse troppo breve,

il tempo per poterla eternamente ricordare.

E il suo profumo m’inonda ancora,

di mossi capelli i miei pensieri avvolge.

E fu quell’attimo a bastare

alla mia vita nuova origine dare.

E rivoluzione mi ritrovai,

di quel sole, quella luce anelare

e cominciare a girare.

Fu lei, destino mio,

un’ora fa,

Alla mia porta a bussare.

 

Il poeta maledetto

L’anellino – scritta il 30 giugno 1995

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Ho comprato un anellino.

A lei lo voglio regalare.

Luccicante di oro fino,

più del sole che muore in mare.

Non è che un dolce pensierino,

simbolo di qualcosa

troppo grande da immaginare.

A lei lo voglio regalare,

per dimostrarle l’amore che provo.

Ché possa spiegarle col suo luccichio,

quel che vorrei dirle e le parole non trovo.

Qual gioia ho in cuor,

nell’immaginarmi il suo viso, i suoi occhi;

le sue dita sfiorare questo splendido anellino.

La sua mano nasconderlo dietro la mia schiena,

quando avvicinandosi,

in un abbraccio m’avvolge.

I suoi occhi riflessi nei miei, mi bacia, sorride;

sussurra “ti amo”;

ed io “sei bella”, rispondo incantato.

E’ ciò che m’aspetto da questo anellino:

che a lei riveli la mia voglia d’amare.

Non so aspettare, la vado a cercare.

La trovo in un vicolo, passeggia distratta.

La saluto, sorrido, m’avvicino sicuro.

Le bacio la mano sfiorandola appena,

ma cos’è quella cosa che luccica là?

“Mi sono sposata. E’ stato ier l’altro.”

Ah, davvero? E con chi?

No aspetta! Non voglio saperlo.

Volevo dirti una cosa,

non importa, non fa niente.

Sii felice amica mia.

Sii felice più di me.

Ho comprato un anellino.

A lei volevo regalarlo.

Ma per il suo posto c’era già un anello.

Più grande, più grosso e molto più bello.

C’è una chiesa un pò più avanti.

C’è una bimba sulle sue scale.

Da quella bimba di dieci anni

vado spesso a chiacchierare.

Coi vestiti logori,

sta li seduta a vender margherite.

“Ciao signore, come stai?”

Le sorrido, m’avvicino sicuro.

Ho comprato un anellino

te lo voglio regalare.

Qual gioia nel suo viso, nei suoi occhi;

vedere le sue dita sfiorare

quello splendido anellino.

La sua mano nasconderlo dietro la mia schiena,

quando avvicinandosi,

in un abbraccio m’avvolge.

I suoi occhi riflessi nei miei,

mi bacia la guancia, sorride.

Sussurra:

“Grazie signore, anch’io voglio regalarti qualcosa”;

così dicendo mi porge tutte le sue margherite.

La saluto, vado via con i fiori.

La notte scende in ogni luogo,

ed il buio confonde

ciò che poco prima era chiaro.

Lo nasconde, gli da mistero.

Sulle scale di una chiesa brilla come una stella,

un anellino ad un dito,

quasi fosse una lucciola.

Una di quelle tante lucciole

che volano intorno al ponte diroccato

alla periferia del paese.

Sotto quel ponte scorre lento un fiume.

Sulle rive di quel fiume,

incastrate tra le fronde bagnate

stanno tante margherite, strappate,

schiacciate, buttate via.

Tra i loro petali dorme la luna,

riflessa sull’acqua.

Tra i loro petali dorme per sempre

il ricordo di parole mai dette.

Di un uomo che ha amato tanto

e che adesso è sparito per sempre.

 

Il poeta maledetto

 

Fotografia – scritta il 30 aprile 1995

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Un respiro profondo, un sospiro.

Il mare calmo, il sole rosso,

che va a sparire in quelle onde al tramonto.

A volte ho pensato di essere un sasso:

non provare emozioni;

non guardare;

non sentire;

non parlare;

non amare.

Seduto sulla riva

ad ascoltare il canto del mare

e il respiro delle stelle.

Ma sarebbe vita quella?

Raccolgo un sasso, uno qualunque,

forse reincarnazione di uno come me.

Lo scaglio contro il sole,

ma è troppo lontano.

Non lo colpisce e cade giù,

in fondo al mare.

Fuggo via,

come le rondini al primo filo di vento.

Davanti a me c’è una stradina in salita

che porta in cima a una montagna.

Corro veloce, non vedo dove vado.

I miei occhi sono ombrati

e le mie lacrime

bagnano la polvere della stradina.

Non so per quanto ho corso.

So solo che il cielo si è fatto buio,

che sono stanco.

Mi siedo, guardo in alto.

I grilli cantano,

una stella cade giù e sparisce.

Un desiderio. Ho da esprimere un desiderio:

“Quanto vorrei tu fossi qui, con me.”

Quanto vorrei stringerti tra le braccia

e sospirare:

“Non saremo più distanti.”

Ma è inutile.

Sono solo, fermo come un sasso,

sotto un cielo così gremito di stelle,

sotto un cielo così buio e vuoto.

Nasce un nuovo giorno,

con il tepore del primo raggio di sole

che m’illumina il cuore.

Abbandono la cima della montagna,

perdendomi giù per la stradina.

C’è un pittore più avanti.

Con i pennelli, i colori e una tela.

Cosa dipinge?

Mi avvicino, e i colori prendono forma.

E’ un viso.

Un dolcissimo viso che conosco.

Una donna bellissima, forse un angelo.

Il pittore si ferma un attimo,

si rivolge a me:

“Ti piace?”

“Si. E’ un sogno!”

“Hai ragione… E’ proprio un sogno.”

Sparisce la tela;

sparisce il pittore;

sparisce la stradina;

sparisce tutto dai miei occhi.

Il viso appoggiato sul cuscino.

Lo scosto via, è tardi.

E ritrovo la tela.

L’angelo bellissimo:

una tua fotografia.

Me la stringo forte al petto.

“Quanto vorrei tu fossi qui, con me.”

A volte ho pensato di essere un sasso:

non provare emozioni;

non guardare;

non sentire;

non parlare;

non amare.

Seduto sulla riva

ad ascoltare il canto del mare

e il respiro delle stelle.

Ma sarebbe vita quella?

Cosa varrebbe un sasso

se non potesse provare emozioni?

Se non potesse guardare

il tuo meraviglioso viso?

Se non potesse sentire

la tua dolce voce?

Se non potesse parlare

e dirti che tutto sarebbe nulla,

se non potesse amare

il tuo splendido sorriso?

Chissà cosa sarebbe quel sasso

senza la luce ch’è

nella tua fotografia,

quella stessa luce che da tempo

illumina la vita mia.

 

Il poeta maledetto

 

La cicala e la formica – scritta il 20 aprile 1995

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Camminava una formica

per una strada di polvere e sassi;

con il sole che batteva forte, senza tregua.

Lenta lenta se n’andava

che qualch’alimento da portare a casa cercava.

Ma solo quando fu notte,

un aiuto della provvidenza ricevette.

All’ombra di un fungo,

i resti di un umano banchetto:

una mollica di pane.

Era contenta,

avrebbe camminato tutta la notte.

Ma il corpo era stanco,

e s’addormentò abbracciata a quel dono.

Sognò di cicale guerriere,

che volevano portarle via il dono.

E lei combatteva, ma le cicale erano tante.

Così alla fine capitolò.

Per il dolore che ne ebbe si svegliò,

accorgendosi di abbracciare il nulla.

Guardò in giro, ma non c’era niente.

“T’ho vista, sai?”

Cominciò una cicala,

che sdraiata su una foglia vicina,

si godeva la prima luce dell’alba.

“Dormivi abbracciata alla mollica di pane.”

“Poi hai cominciato a mangiarla.”

“E in un’ora l’avevi bell’e finita.”

Si rattristò la formica.

“Cosa mangeranno adesso i miei piccini?”

Si fece buia in viso e cominciò a piangere.

La cicala si commosse a tal punto che disse:

“Troppo mi fa soffrire il tuo penare.”

“Se una mollica di pane avessi,

te la darei,

per cancellare la tua sofferenza.”

Ma c’era stampata

in quell’espressione di pena,

tutta la rabbia

che le cicale guerriere del sogno,

avevano dimostrato.

La formica se ne accorse.

S’avvicinò alla cicala e le disse:

“Canta, ti prego.”

“Acqueta il mio dolore

col tuo splendido canto.”

La cicala lusingata

da quel così bel parlare

non seppe rifiutare,

e cominciò a cantare.

Andò avanti per ore.

Da armonioso che era,

il suo canto però si fece triste.

Anche la cicala si fece triste.

E l’ultima nota rimase incantata,

smorzata nell’ultimo suo respiro.

Quello stesso giorno,

i piccoli di formica,

mangiarono i resti della cicala,

morta d’indigestione,

per aver mangiato pane e bugie

in grossa quantità.

 

Il poeta maledetto

 

L’albero sempreverde – scritta il 10 aprile 1995

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Mi ricordo una collina in campagna,

dove andavo a salutare il sole al tramonto.

Lì in cima c’era un campo di papaveri.

E sotto le loro ombre,

andavamo io e te a fare l’amore.

Mi ricordo di una stradina,

che scendeva dalla collina

e arrivava a una fontana.

A quella fontana si abbeveravano i passeri.

E quando noi,

mano nella mano,

venivamo giù dalla collina,

correndo per la stradina,

loro volavano via.

Rifugiandosi tra i rami

di un albero sempreverde.

Nella corteccia di quell’albero

c’era inciso un cuore con due nomi.

Mi ricordo quella sera che litigammo.

mi voltasti le spalle tra parole

che ti dissi in un momento di rabbia

e che non pensavo affatto.

E te ne andasti via.

Corsi all’albero,

che volevo cancellare il cuore.

Ma non c’era già più.

Seduta alla fontana

c’eri tu che piangevi.

Mi ricordo una collina in campagna,

dove andavo a salutare il sole al tramonto.

Lì in cima, all’ombra dei papaveri,

la mia collera svanì.

Mi ricordo di una stradina,

che scendeva dalla collina

e si fermava ad un albero sempreverde.

Nella corteccia di quell’albero

c’è un cuore con due nomi,

che abbiamo inciso insieme quella sera,

e che nessuno ha cancellato più.

 

Il poeta maledetto

 

Sole di mezzanotte – scritta il 13 marzo 1995

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Sole di mezzanotte,

d’illuminare il giorno già ti vergogni;

così crudele, così malvagio.

Preferisci stare qui,

farti vedere nel silenzio della notte

tra le calotte polari.

Dove non c’è il freddo

che è nel cuore degli uomini.

Dove il ghiaccio copre il mondo,

proteggendolo dal bene e dal male.

Sole di mezzanotte,

l’aurora fa da cornice

a un quadro che non esiste.

Un orso annusa l’aria

che non porta profumi.

E tu risplendi sul nulla di qualcosa,

che è molto più grande di te.

Ma è davvero per vergogna

che qui vieni a nasconderti?

Il cervo non volle crederci

e di nascosto ti seguì.

La tigre che tanto ti stimò

a lui si unì.

Ad uno ad uno,

tutti gli amici tuoi più cari,

ti seguirono fino al polo.

Ed è li che ti trovarono;

tra due montagne di ghiaccio,

intento a scaldare

un dolce fiorellino.

Infine stremato dalla fatica

il sole morì.

E il mondo cadde

nelle tenebre più cupe.

non per molto però,

perché per il sacrificio del sole,

il fiorellino sbocciò,

liberando un nuovo sole

che si alzò alto nel cielo.

Quella notte gli animali

videro la luce della vita

del sole di mezzanotte.

 

Il poeta maledetto

 

Il vento – scritta il 27 febbraio 1995

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Un granello di polvere

che svolazza per la stanza.

Rivelato da un raggio di sole

che filtra dalla finestra.

Si ferma su di un mobile,

silenziosamente.

Resta li per giorni, per mesi,

forse per anni.

Poi basta una folata di vento

e ricomincia a volare.

Un granello di sabbia

perduto in una spiaggia.

Rivelato da un raggio di sole

del tramonto.

Avvinghiato a tanti altri

in un abbraccio silente.

Resta li per giorni, per mesi,

forse per anni.

Poi basta una folata di vento

e ritorna nel mare.

L’uomo è un granello di polvere

che svolazza in una stanza.

E’ un granello di sabbia

perduto in una spiaggia.

Rivelato da un raggio di sole

che ne illumina la via.

Si ferma a guardare avanti,

silenziosamente.

Resta li per giorni, per mesi,

per anni.

Poi basta una folata di vento,

e se lo porta via.

 

Il poeta maledetto

 

Bucato – scritta l’ 8 febbraio 1995

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Macchia di sporco su una tenda bianca;

il sole del tramonto ti mette in luce

chiamandoti in causa a giudizio del mondo.

Di natura infame è pregna la tua esistenza,

volgare la tua testimonianza.

Eppur la tenda mai

alzò un dito accusatorio contro di te,

né mai ti accorgesti di essere

così tanto infamante per il mondo

che ti accolse come un figlio

e che adesso vorrebbe

tu non fossi mai esistita.

E il tuo cuore si fa scuro come il cielo,

mentre il giorno finisce.

Nel silenzio della notte,

una melodia leggera di singhiozzi

scivola via nel vento, nel tempo.

Ritorna l’alba e irradia una tenda bianca,

splendente, stesa al sole ad asciugare.

Gocciolano in terra

le lacrime di una tenda lavata di fresco,

mentre evapora il ricordo

di una sudicia macchia di sporco.

 

Il poeta maledetto