Per te – 23 settembre 2008

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Una notte ad aspettare che tu arrivassi,

mano nella mano con colei che doveva darti la luce.

Ad ogni spinta, spingevo anch’io, incitavo, confortavo, attendevo.

Fui il primo a vedere i tuoi capelli spuntare,

così sottili, che sembravano fili d’alghe bagnati dal mare.

Fui il primo a veder spuntare il tuo visino,

imbronciato, rugoso, come un pupazzetto di gomma.

Fui il primo, in barba a ostetrica e assistenti,

a correre nell’altra stanza, per assistere al tuo primo bagnetto,

al tuo primo aprir gli occhi su questo mondo.

Fui il primo, dopo che fosti stato misurato e pesato,

a tenerti in braccio, chiuso in quel fagottino.

E fui il primo a mostrarti ai nonni, che erano fuori ad aspettare.

Mi portarono via l’auto, e dovetti pagare per poterla riavere.

Perché nella foga di essere li in tempo,

avevo parcheggiato in ospedale, dove non si poteva.

E iniziai a proteggerti, contro tutto e tutti,

anche quando non ce n’era bisogno,

anche quando esagerando, mi scontravo con le nonne,

sicuramente con più esperienza di me,

ma lo facevo perché eri il mio dono più importante.

Fragile come una stella marina, prezioso come un brillante fra i diamanti.

E trascurai tutto per te.

Qualsiasi cosa che non eri tu o per te, non aveva un senso.

Perché nei primi giorni potessi essere li, a godermi istante dopo istante,

la tua crescita, come fosse visibile.

Sono stato li, nelle notti insonni, quando iniziarono i dolori al pancino.

Ero li a cullarti, a tenerti in braccio, quando tua madre piangeva e

non sapeva che fare per alleviarti il dolore.

E soffrivo con te, ma in silenzio, perché tu vedessi in me,

da subito, il tuo punto di riferimento.

Sono stato sempre al tuo fianco, sempre a un passo e non due.

Per essere il primo a correre, anche quando dai nonni,

qualcuna disse ch’io per te “non ci tenevo” e più d’uno le credette.

Ma a me cosa importava?

Mi bastava guardarti che mi guardavi, per dimenticare o non ascoltare

altre parole.

E tornai a cambiar lavoro, a cambiar luogo, perché ardentemente speravo

di poter assicurarti un futuro migliore e un presente felice.

E poi il lavoro di tua madre, opportunità e disagio.

Un aiuto importante all’inizio, quando io vivevo ancora

difficoltà sul lavoro. Un peso ogni giorno più grave poi,

giorno dopo giorno.

Quando le parole volavano come coltellate, ch’io ero un fallito,

ch’io non ero in grado di darti da mangiare, ma ch’io dovevo pure

esserti vicino pomeriggio presto, rinunciando al mio lavoro, e di sera

e di notte, perché lei potesse lavorare.

Ma cosa m’importava di sentirmi dire fallito?

Di non aver la possibilità di lavorare al meglio?

Di sentirmi dire che lei portava più soldi di me?

Io avevo la fortuna e la gioia, di poter essere con te,

prepararti da mangiare, nutrirti, cambiarti, lavarti, farti giocare,

addormentarti.

Ed anche se con lei, le cose andavano male, ogni giorno più male,

e non capivo perché, io guardavo i tuoi occhi, e rivivevo in te.

E poi gli zii… Altra battaglia persa. Contro un egoismo di chi,

con la filosofia di “Cazzi miei!”, ti confinava in un metro quadro,

perché la tua smania (lecita) di essere bimbo, poteva minacciar la casa

e i suoi oggetti; una casa non nostra, degli oggetti del cazzo, non nostri.

E mi sono scontrato con chi ci ospitava, si, irriconoscente;

per quella culla trasferita in cantina per far posto all’albero di natale;

per quei giocattoli tuoi, raccolti in una busta, messi sopra uno sgabuzzino;

perché per terra davano fastidio, perché se veniva qualcuno “che figura di merda era?”

La figura di merda, l’hanno fatta nei loro cuori. Nel momento in cui rifiutasti il loro

abbraccio. Quelle poche volte che te lo offrirono, così poche da contarle su una mano, in tanti mesi.

E tua madre lavorava, e tua madre stava zitta. Solo io ti difendevo, ma io ero un fallito,

e non avevo diritto di parlare.

Ma parlavo. E lo facevo per te.

E più tua madre lavorava, e più ti trascurava.

E più volte l’ho ripresa, perché “viveva del lavoro” senza pensare a te.

Ma la risposta era sempre la stessa: io dovevo star zitto, non avevo diritto di parlare.

E poi finalmente, una casa nostra, in affitto.

Dove tu potevi sbizzarrirti come volevi.

Mentre tua madre avrebbe, un pacco al giorno, messo a posto i vestiti, dopo ch’io avevo, messo a posto il resto.

Poi l’amara delusione… Quando certezza ch’era illusione, divenne disillusione.

Quel suo “vivere per il lavoro” era il suo “vivere per chi aveva al lavoro”

e furono chiari l’abbandono, i litigi, le parole pesanti, l’indifferenza, e l’unica, contro la quale m’ero battuto:

l’indifferenza verso te.

Quel “sopportarti” tra le pause di lavoro e lavoro, che non era solo lavoro.

E così, dopo dieci giorni di casa nuova, con quei pacchi ancora intatti,

quelli dei vestiti; quelli che avrebbero dovuto esser messi a posto uno al giorno. Se solo lei avesse voluto più

 tempo per te, più tempo per la sua casa, e un po’ meno tempo per lei e per l’altro, visto che ormai non le

 bastavano più i sei giorni su sette di lavoro, doveva vederlo anche nell’unico giorno che avrebbe potuto,

 dedicare interamente a te.

E fu dolore grande in quei giorni.

Ma il mio pensiero andò a te, e a quale sarebbe stato il tuo bene.

Ed anche se la odiavo per quello che aveva fatto a me, a te, a lei, alla casa;

con quel che rimaneva del mio cuore spappolato, impossibilitato a perdonare o dimenticare, le chiesi comunque,

 se voleva essere perdonata.

Per poterti ancora dare una madre,

Per poterti ancora dare un padre.

Ma lei rispose di No.

Perché lei, pensando a se stessa e a nessun altro, vedeva più “un futuro con l’altro, che con me”.

Quell’altro sposato, e con un bimbo di dieci anni, la cui premura fu, saputo che io avevo scoperto,

di chiederle se io, fossi andato ad avvisare sua moglie.

E così dopo il no,

ripensai a te, a quale poteva essere la soluzione migliore per te.

E così pensai che quella madre indegna, avrebbe potuto cambiare, per amor tuo,

standoti vicino come fino a quel momento non aveva fatto.

E con l’aiuto dei nonni, sarebbe potuta migliorare e con l’affetto di tutti e tre, non avresti sentito

 la mancanza di quel padre, che per il tuo bene, rinunciava a te.

Perdonami, se non ho potuto accettare la sua “proposta”:

– lei continuava la relazione con quell’essere sposato, continuava a lavorare per lui,

si teneva la casa, il cui affitto avrei dovuto pagarle io, io me ne andavo fuori dai coglioni,

ma restavo sempre in zona, perché quando lei doveva lavorare e quando lei doveva stare con lui,

tu saresti rimasto con me. –

Perdonami! Non ho avuto cuore di accettare.

Ho preferito, per il tuo bene, mettere fra me e te, fra lei e lui, ottocento chilometri,

perché lei capisse quello che ti aveva fatto, perché perdendo la vicinanza di un padre,

avresti ritrovato la vicinanza di una madre.

E sono stati giorni e mesi tristi, cupi. In cui non ricordo altro che non fosse dolore e sofferenza.

Intervallati dai momenti in cui potevo vederti e sentirti con un videofonino: l’unico contatto,

insieme a tabaccaio e pronto soccorso, con il mondo esterno.

Ma l’ho fatto per te.

E speravo che lei si pentisse, che lei capisse, cosa aveva fatto a me, cosa aveva fatto a te,

cosa aveva permesso che l’altro le facesse, alla luce del perdono che aveva chiesto alla moglie,

alla luce delle parole che aveva usato per lei, definendola una che cercava sesso, e l’aveva trovato,

che lui mai, le aveva proposto altro. E speravo

che lei si pentisse, di esser stata l’amante, con la quale lui tradiva l’amante,

con la quale lui tradiva la moglie (non è un errore: amante-amante-moglie).

Ho sperato che anelasse a riavere quel che distruggendo aveva perso, perché dalle macerie,

si potesse ricostruire.

Ma così non è stato.

E allora ho pensato di nuovo a te.

E ho chiesto a lei, piangendo (ma piangendo di rabbia e dolore, perché sapevo, speravo che avrebbe dovuto,

che lei, avrebbe dovuto), di riprovare a ricostruire quella famiglia, a cui tu avevi diritto.

E l’ho fatto per te.

E ho tentato di non pensare, visto che non riuscivo a perdonare.

E ho chiesto di sapere, solo per poter definitivamente accettare.

Per poter ricostruire, con base una fiducia, ch’era stata tradita, annientata, mortificata.

Ma ho ottenuto ancora menzogne, e “giochi di parole”

Prima di sapere che lei, in quell’unico giorno che avrebbe potuto dedicare a te,

si era data a lui, in una camera di un albergo ad ore.

Come una puttana.

E il dolore è stato più forte, più della prima volta,

scoprire che dopo averla cercata per ricostruire, aveva ancora tradito la mia fiducia,

con menzogne e verità non dette: gioco di parole “non sono mai stata in una – casa – con lui”.

In una casa no, in un albergo si, mia meschina bugiarda compagna per undici anni.

E più peso hanno avuto alla luce di ciò, le parole:

“Io volevo sentirmi donna!”, quando dimenticò di esser madre, e moglie.

E quello stesso giorno, l’incidente, a rincorrere chimere di dolori strazianti al cuore.

Un caso, o il destino, che noi siamo ancora qui a ricordare, come qualcosa di brutto,

ma non qualcosa di mortale.

Ed un’altra separazione.

E poi la data: il 22 di settembre; che si avicinava.

La data di una stanza di tribunale, dove mettere una firma, dove seppellire un matrimonio.

E per amor tuo,

ancora ho chiesto, che prima di quella data, riprovassimo a darti una famiglia.

Le ho detto: “Per amore di mio figlio, posso stare con una donna che non amo, e che non mi ama.”

Ma la risposta è stata No.

Perché io non devo dimenticare che la colpa è mia.

Si. Delle sue azioni, la colpa è mia.

Ma se servisse a darti qualcosa in più,

io la accetterei.

Ho chiamato un prete.

Quel prete che ci ha sposati, lo stesso prete che ti ha battezzato,

perché riuscisse dove io ho fallito, perché riuscisse a farle capire il male che ti ha fatto,

e quello che ancora ti avrebbe fatto. E perché lo facesse prima di quel 22 di settembre.

Ma anche la voce di Dio ha fallito.

E se ha fallito lui, come avrei potuto vincere io?

Ed il 21 di settembre, mi sono chiuso in me stesso.

Come un riccio.

Per capire cosa avrei potuto fare per te,

per poterti fare del bene.

E il 22 di settembre, chinando il capo ad una decisione non mia,

l’ho rialzato, con una mia decisione, quella di ridarti un padre:

abbandono la casa,

abbandono Novara,

abbandono il lavoro,

torno da te,

per esserti vicino.

Non potrò essere nella stessa tua casa,

ma non potrò negarti un abbraccio quando lo vorrai.

Lo faccio per te, solo per te.

E non sai quante altre cose farò per te,

figlio mio.

Il tuo papà.

Lettera alla mamma (scritta da un bimbo di due anni)

Tra le lacrime e con un nodo alla gola, ho scritto questa lettera, come se fosse stata scritta da mio figlio. Un bimbo di meno di due anni. Un bimbo come tanti (purtroppo!), che subisce separazione e divorzio dei genitori. Solo per un capriccio, un abbaglio di un momento, di colei che:

“Volevo sentirmi donna!” – e ha dimenticato di essere mamma e moglie. E ha chiuso gli occhi per non guardare dove stava andando da sola,

e ha tappato le orecchie, per non sentire la voce e la vocina di chi rimanendo indietro, la chiamava, vedendola allontanarsi da sola, sempre più distante.

 Il poeta maledetto, un papà.

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Cara mamma ti scrivo.

Lo so che sono piccolino, fra un mese compirò due anni,

e che quindi sembra strano che io ti scriva una lettera.

Ma quello che devo dirti è così importante,

che ho chiesto ad un angioletto di darmi una mano.

Così ti scrivo, e voglio parlarti di me, di te e di papà.

Oggi al parco, quando ho giocato con gli altri bimbi,

ne ho visto uno inciampare e cadere,

e poi chiedere le coccole ed andare in braccio,

prima alla mamma e poi al papà.

Io ho solo te vicino. Ti ringrazio per esserlo,

ma mi manca l’abbraccio di papà.

Poi ho visto che quando gli altri bimbi tornavano a casa,

davano una manina alla mamma e una al papà.

Io in una stringevo la tua, ma l’altra era vuota.

E mi manca la mano grande di papà.

E ti ricordi quando per andare al lavoro

tornavi sempre tardi la notte?

Io ero ancora più piccino, e non ce la facevo ad aspettarti.

Così mi addormentavo nel letto, stretto forte a papà,

tanto stretto per sentire il suo calore

che mi faceva sentire protetto.

Ora la sera mi stringo stretto stretto a te,

e ti ringrazio per questo.

Ma mi manca il calore di papà.

E mi sento triste e vorrei piangere,

quando penso che papà non viene,

nemmeno mentre sto dormendo.

Poi mi ricordo quando al pomeriggio tu andavi via,

per andare al lavoro. Ed io piangevo.

Perché volevo che tu restassi con me.

Ma poi papà mi consolava.

Mi metteva sulle sue ginocchia,

e mi faceva giocare con il computer.

Ed io battevo forte sui tasti.

Una volta gliene ho strappato uno di tasto,

ma mi raccomando: non dirglielo.

E mi ricordo di quando sono stato male,

e papà non andava al lavoro

per stare con me la mattina, il pomeriggio, la sera e la notte.

E’ stato con me due settimane.

Ed io, pure se stavo male e non volevo mettere la supposta,

ero contento.

Perché papà era tutto il giorno con me, e poi,

quando non eri al lavoro, c’eri anche tu.

Ricordo quei giorni, anche se ero più piccino di ora.

E ricordo che eravamo insieme, io, tu e papà.

Ma ora?

Ora io e te siamo qui dai nonni.

E sono contento perché sono con te,

e sono insieme ai nonni, a cui voglio molto bene.

Ma penso a papà…

Lui ora è lontano, da solo.

E se la notte ha freddo?

Se sta male?

O se semplicemente si sente solo?

Come faccio a saperlo ed abbracciarlo?

E dargli il bacetto e farmi prendere in braccio e consolarlo?

E se gli angioletti sono tutti impegnati?

Come farà papà?

A volte vi ho visti litigare e alzare la voce.

E’ colpa mia?

Se è colpa mia, mamma,

ti prego! Picchiami forte forte sul culetto,

non darmi la pappa,

non farmi giocare,

non voglio andare al parco con gli altri bimbi,

non voglio guardare la televisione,

non voglio la cioccolata,

non voglio giocare a palla in casa.

Voglio solo papà!

Ti prego perdonami!

Non averlo con me

è una punizione troppo grande,

per questo cuore piccino piccino.

Tuo, e anche di papà,

Alessandro