Camminava una formica
per una strada di polvere e sassi;
con il sole che batteva forte, senza tregua.
Lenta lenta se n’andava
che qualch’alimento da portare a casa cercava.
Ma solo quando fu notte,
un aiuto della provvidenza ricevette.
All’ombra di un fungo,
i resti di un umano banchetto:
una mollica di pane.
Era contenta,
avrebbe camminato tutta la notte.
Ma il corpo era stanco,
e s’addormentò abbracciata a quel dono.
Sognò di cicale guerriere,
che volevano portarle via il dono.
E lei combatteva, ma le cicale erano tante.
Così alla fine capitolò.
Per il dolore che ne ebbe si svegliò,
accorgendosi di abbracciare il nulla.
Guardò in giro, ma non c’era niente.
“T’ho vista, sai?”
Cominciò una cicala,
che sdraiata su una foglia vicina,
si godeva la prima luce dell’alba.
“Dormivi abbracciata alla mollica di pane.”
“Poi hai cominciato a mangiarla.”
“E in un’ora l’avevi bell’e finita.”
Si rattristò la formica.
“Cosa mangeranno adesso i miei piccini?”
Si fece buia in viso e cominciò a piangere.
La cicala si commosse a tal punto che disse:
“Troppo mi fa soffrire il tuo penare.”
“Se una mollica di pane avessi,
te la darei,
per cancellare la tua sofferenza.”
Ma c’era stampata
in quell’espressione di pena,
tutta la rabbia
che le cicale guerriere del sogno,
avevano dimostrato.
La formica se ne accorse.
S’avvicinò alla cicala e le disse:
“Canta, ti prego.”
“Acqueta il mio dolore
col tuo splendido canto.”
La cicala lusingata
da quel così bel parlare
non seppe rifiutare,
e cominciò a cantare.
Andò avanti per ore.
Da armonioso che era,
il suo canto però si fece triste.
Anche la cicala si fece triste.
E l’ultima nota rimase incantata,
smorzata nell’ultimo suo respiro.
Quello stesso giorno,
i piccoli di formica,
mangiarono i resti della cicala,
morta d’indigestione,
per aver mangiato pane e bugie
in grossa quantità.
Il poeta maledetto